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La bomba che cambiò il mondo raccontata da chi l’ha costruita

Il prossimo agosto ricorre il 70esimo anniversario di uno degli avvenimenti più sconvolgenti della storia, uno di quei fatti che hanno veramente cambiato il mondo e specialmente il modo di pensare delle persone: i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki. Tra le numerosissime invenzioni del Novecento, la bomba atomica è quella probabilmente più distruttiva e più impressa nell’immaginario collettivo (almeno in ambito bellico), in grado di sprigionare in un solo istante una quantità di energia mai vista in precedenza e di provocare seri danni non solo nel presente, ma anche per molti anni futuri.
Ormai tutti sanno che la storia ne ha viste due, devastanti, che piegarono definitivamente il Giappone nel 1945, ponendo fine a quel disastro globale che fu la seconda guerra mondiale. Negli anni seguenti molte critiche sono state sollevate a loro riguardo, sia nei confronti dei governi che le usarono (quello statunitense, sostenuto dagli Alleati), sia verso gli scienziati che le produssero o che in qualche modo contribuirono alla loro costruzione. Dai tempi della stregoneria, la scienza non è forse mai stata demonizzata tanto quanto allora, accusata di essere portatrice di morte invece che di progresso. Ma è davvero così? Le menti che ci lavorarono furono davvero mosse da crudeltà, o forse è solo un giudizio superficiale che va rivisto? Il miglior modo per scoprirlo è quello di chiedere proprio a loro delucidazioni a riguardo, e questo è ciò che fa Stefania Maurizi nel suo libro “Una bomba, dieci storie. Gli scienziati e l’atomica, riportando delle vere e proprie interviste da lei fatte a questi uomini. Ma il suo più grande merito è un altro, ovvero quello di non essersi limitata solo ai racconti di coloro che costruirono l’arma più potente mai concepita dalla mente umana, ma anche di coloro che la subirono, che rischiarono di subirla o che in qualche modo ne hanno avuto a che fare. Grazie a ciò questo interessante libro riesce a fornire una vera visione a 360° attorno alla bomba, permettendo di capire meglio la sua storia.

Dopo una breve premessa storica, nella prima parte del libro Maurizi intervista coloro che ebbero più direttamente a che fare con “Little Boy” e “Fat Man”, le due bombe più conosciute della storia sganciate rispettivamente su Hiroshima e Nagasaki, in Giappone, il 6 e il 9 agosto 1945, provocando circa 200.000 morti subito e varie migliaia in seguito, a causa delle ferite e delle radiazioni.
Si scopre così come molti degli scienziati americani (o che lavorarono per gli Stati Uniti), come Hans Bethe e Philip Morrison, furono mossi non certo dalla crudeltà, ma dalla paura della Germania. L’idea di una simile arma in mano a Hitler terrorizzava praticamente tutti, e non era un timore infondato: i Tedeschi infatti avevano dalla loro parte uno dei più grandi scienziati della storia (purtroppo non intervistato perché morto prima dell’idea di questo libro, come molti altri grandi quali Fermi e Oppenheimer): Werner Heisenberg, che con delusione di molti non abbandonò mai la sua patria. D’altra parte però Carl Friedrich von Weizsäcker, fisico tedesco, assicura che gli scienziati teutonici avevano accantonato l’idea di una simile arma ancora nel 1943, considerandola troppo difficile e dispendiosa da produrre, e anzi sottolinea come gli Americani, mossi dal desiderio di libertà, la realizzarono, mentre i Tedeschi di Hitler costruirono il primo reattore funzionante: i primi distrussero, i secondi costruirono. Dal canto suo, von Weizsäcker ricorda che quando lui e i suoi colleghi si resero conto che non potevano costruirla, ne furono tutti “molto felici”.
L’americano Sam Cohen è invece più freddo: egli difende l’operato degli Stati Uniti e approva anche l’attacco al Giappone (al contrario di molti colleghi che una volta sconfitta la Germania proponevano una semplice dimostrazione della forza della bomba su un luogo disabitato), anche se non nasconde alcuni dubbi sull’effettiva utilità della seconda bomba. Infine, altri scienziati come l’anglo-polacco sir Joseph Rotblat decisero di abbandonare gli studi appena compresi i fini di quelle ricerche, e anzi si diedero in seguito molto da fare nell’ambito mondiale per quanto riguarda il disarmo nucleare.
Chiude questo ciclo di interviste il toccante contributo di Shoji Sawada, fisico giapponese che, all’età di appena 14 anni, visse in prima persona il dramma di Hiroshima. E’ uno degli “hibakusha”, i sopravvissuti (quasi per miracolo) ai bombardamenti atomici, e con un’incredibile storia da raccontare. Salvato dall’onda d’urto iniziale grazie alle mura di casa, in cui ero costretto a causa della febbre, vide morire sotto i suoi occhi la madre, ma riuscì a mettersi in salvo scappando lontano oltre un fiume. Proprio questa (involontaria) accortezza, insieme con il periodo vissuto poi in campagna da parenti, lo salvò dalle radiazioni. Ma è bello vedere come l’amore per la scienza superi i rancori, tanto che Sawada non ha comunque esitato a diventare fisico.
Nella seconda parte del libro invece si trovano le interviste a coloro che lavorarono alla bomba successivamente, nell’ambito della guerra fredda (ben diverso da quello della seconda guerra mondiale ma animato dalla stessa paura della potenza del nemico). Si incontrano così scienziati che da una parte e dall’altra della cortina di ferro diedero il proprio contributo alla loro nazione, come l’americano Richard Garwin e il sovietico Roald Sagdeev. Ma anche “traditori”, come Ted Hall e la moglie Joan, che con grande coraggio passarono informazioni riservatissime ai sovietici per il timore di un’unica grande superpotenza nucleare (gli USA) che potesse piegare il mondo a suo piacimento. Speravano così, dando i mezzi anche all’Unione Sovietica, di creare un deterrente per entrambi. E così è stato.
Chiude il libro un’interessante intervista a Ellen Weaver, una delle pochissime donne che a quei tempi lavorarono al progetto nucleare statunitense. Si scopre così come le donne fossero gran poco considerate e molto sottovalutate, tanto che dovette cambiare tre impieghi per poter ricevere una paga un po’ più alta di quella che può ricevere una donna delle pulizie…

In conclusione, non riusciremo a dire con certezza se la bomba atomica sia stata positiva o negativa per la storia, ma almeno possiamo constatare che gli scienziati non volevano certo distruggere il mondo. Dopotutto, non è la scienza ad essere buona o cattiva, ma gli usi che se ne fanno.
Infine bisogna considerare che il progetto Manhattan e il lavoro degli scienziati nel laboratorio di Los Alamos (così come quello successivo in Russia) fu una grandissima opportunità per lo studio della fisica nucleare, su cui vennero convogliati sforzi e menti.
La grande (anche se grottesca) importanza di questa vicenda fu infatti di far finalmente interessare veramente i governi e la gente alla scienza, che poté così ricevere attenzione e finanziamenti senza precedenti. E il libro di Stefania Maurizi vuole proprio fare questo: offrire una visione veramente generale della storia della bomba atomica e della scienza che ci sta dietro, liberandola da demonizzazioni e permettendo di sviluppare un pensiero a riguardo libero da pregiudizi e credenze sbagliate. Una vera opera di divulgazione scientifica.

Dennis Verra

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