La memoria e le interpretazioni del Risorgimento
Negli anni del dopoguerra le interpretazioni storiografiche del Risorgimento furono influenzate dal’intellettuale e leader comunista Antonio Gramsci, in quanto nel 1949 vennero pubblicati i suoi scritti sul Risorgimento raccolti nei “Quaderni dal carcere”.
Secondo Gramsci i liberali cavouriani (i «moderati», come li definiva Gramsci) erano riusciti a esercitare una supremazia nei confronti dei democratici, perché questi ultimi non erano stati capaci di attuare una politica fondata sulla distribuzione delle terre ai contadini, che sarebbe stato l’unico modo per cambiare l’esito della rivoluzione italiana.
Per questo motivo Mazzini e i democratici, perdendo l’appoggio dei contadini non erano riusciti ad avere la meglio sui liberali cavouriani.
Nella realtà del dopoguerra le tesi di Gramsci ebbero molto successo, portando a diverse ricerche sulle componenti democratiche del Risorgimento e le strutture economico-sociali del paese. Allora la storiografia gramsciana produsse ottimi lavori come gli studi di Franco Della Peruta, o la fondamentale “Storia dell’Italia moderna” di Giorgio Candeloro. Tuttavia l’interpretazione gramsciana del Risorgimento fu criticata da un giovane storico, Rosario Romeo. Egli dimostrava come, al momento dell’unificazione, non esistessero in Italia le condizioni per una rivoluzione agraria. Sosteneva, poi, come il diffondersi della piccola proprietà contadina avrebbe danneggiato lo sviluppo del capitalismo industriale. L’interpretazione gramsciana del Risorgimento avrebbe però avuto fortuna ancora per molto tempo. Nel 1986 anche Candeloro espresse dubbi sull’interpretazione gramsciana del Risorgimento.
Da Romeo vennero testi fondamentali, tra cui la biografia Cavour, pubblicata tra il 1969 e il 1984. Con quest’opera Romeo obbligava a rivedere molti precedenti giudizi storiografici riguardo all’atteggiamento verso il movimento nazionale italiano tenuto dall’Inghilterra, timorosa che l’unità d’Italia la privasse di un alleato antifrancese.
Romeo aveva osservato che nel 1911 la tradizione risorgimentale era «operante come viva realtà ideale e morale» nel 1961, invece, «sotto la cornice grandiosa delle manifestazioni ufficiali», si percepiva un «certo senso di distacco delle masse ma anche delle classi dirigenti». La «grande modernizzazione» legata al miracolo economico iniziava a cambiare il panorama culturale del paese, imponendo valori improntati al progresso, alla modernità, al futuro. L’eredità del Risorgimento tendeva a farsi più sfocata, debole e incerta.
Oltre alle politiche antiromane della Lega, negli anni ’80, tornarono in vigore una serie di motivi critici, come l’idea che l’unificazione coincidesse con una conquista del Sud da parte del Piemonte, impedendo lo sviluppo del Mezzogiorno.
Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e poi il suo successore Giorgio Napolitano riproposero continuamente simboli, momenti e figure del Risorgimento anche come reazione ai filoni di opinione antirisorgimentale, assumendo un nuovo approccio «culturalista», caratterizzato dalla tendenza ad abbandonare i più tradizionali argomenti e appoggi della storia politica o economica.
Di Siamo Niki Bernardoni, Andrea Bucciarelli, Leonardo Festini e Fabian Storti